2012. Ero arrivato da poco a New York per realizzare ricerche sull'architettura degli anni 60', 70', 80'. Smarrito, senza amici né contatti accademici, erravo tra biblioteche comunali. I miei unici rapporti umani erano spesso i senza tetto che vi soggiornavano facendo finta di leggere per riposarsi all’asciutto, in una sedia comoda. Era uno dei periodi intellettualmente più intensi della mia vita e nel contempo uno dei più duri.
Mi dissi che si trattava di una risposta automatica. No. Era proprio Vito Acconci. Mi ringraziava per la mail. Spiegava che, seppur dal nome e origini italiane, non parlava quella lingua, ma che tra le linee aveva capito abbastanza del mio messaggio al punto da incuriosirlo e chiedermi elucidazioni. Voleva che gli traducessi un po' dei miei testi e che c'incontrassimo per parlargli delle mie ricerche. Quello fu il primo rapporto con quello che – lo capì più tardi - è la generosa intellighenzia newyorkese. Per certi versi il mio dottorato cominciava difatti quel giorno.
Iniziò così un rapporto epistolare in cui, poco a poco, ci aprivamo parlando dei nostri reciproci problemi. Mi parlò della sua infanzia da figlio unico al Bronx, delle sue origini italiane, delle difficoltà del suo studio. “Ora lo studio è in una situazione finanziaria grave e quasi inattivo: ovviamente io non voglio che rimanga così. Devo fare di tutto per riportarlo a quello che potrebbe essere.”
Figlio dei fertilissimi Stati Uniti del post-68', Vito Acconci fu uno dei predecessori dei caratteri propri dell'arte e dell'architettura di oggi. Fu tra i primi a mescolare, senza frontiere definite, arte, poesia, multimedia, auto-referenzialità, multidisciplinarietà, critica, teoria, caos, provocazione, pornografia, sé stesso e lo spettatore. Una crisi perpetua, cortocircuiti espressione di un mondo caotico, interconnesso.
Un anno dopo, poco più, poco meno, nell’aprile 1972, una delle riviste d’architettura all’epoca più dinamiche e influenti, attenta ai contesti radicali internazionali, «Domus» (numero 509), esprimeva la tensione culturale di quella generazione in una copertina straordinaria realizzata dagli architetti radicali 9999. La cupola brunelleschiana, a colori, volante tra i rami di un bosco quasi metafisico, ma forse semplicemente fotocopiato con una Olivetti “Copia 105”. Nel sottobosco, una folla di giovani laureati in un’università conservatrice anglosassone, vestiti con le tipiche cappe clause, circondati da super computer, (forse degli Olivetti?), con alcuni uomini “normali” che lavorano.
Nel contesto fertile della New York degli anni '70, tra crisi economica, sociale e politica, tra artisti come Gordon Matta Clark, l'Istituto per l'Architettura e Studi Urbani, architetti come Peter Eisenman, di cui amico, ma anche Raimund Abraham e Kenneth Frampton, in una tensione tra critica, politica, arte, architettura, Acconci decise di dedicarsi all'architettura verso gli inizi degli '80, fondando nel 1988 il collettivo Acconci Studio, con artisti e architetti.
Vito rifiutava ossessivamente il bollino d'artista (“Non ho mai amato l'arte!”) e quello d'architetto. Per Acconci, in modo del tutto contemporaneo, non vi erano distinzioni tra queste due arti e insisteva sul parlare dell' “oggi, ora, adesso”, del progettista di spazi, e non del passato artistico-performativo-poetico. La sua carriera d'architetto gli diede meno successo, malgrado progetti di grande interesse.
Ci scrivevamo. Io, deluso dalla precarietà e dall'università italiana, dalla borsa di studio che non bastava ad arrivare a fine mese, senza mai sottolineare le vittorie, ma valorizzando sempre le sconfitte. Lui, che malgrado una vita di opere, pubblicazioni, mostre, dal MOMA ai grandi musei europei, era tormentato dall'assenza di riconoscimento come architetto. Entrambi riempivamo, a colpi di mail, il bicchiere mezzo vuoto dell'altro. “I problemi vanno e tornano. Ma le idee restano. Le tue idee sono nella storia” gli scrissi.
Entrambi caotici e bulimici d'idee, di vita, tra troppe cose da fare, troppi appuntamenti, viaggi e urgenze d'ultima ora, tipici del disadattamento alla contemporaneità, di chi fatica il doppio per poter fare qualcosa che altri possono fare in modo più lineare, non riuscimmo mai a vederci. E, dopo un po', abbiamo smesso di scriverci e non l'ho mai intervistato per la mia tesi di dottorato, non ne avevo più bisogno. Una delle ultime frasi che mi scrisse fu “we can find time, make time” (possiamo trovare tempo, fare tempo) per incontrarci. Ma non lo trovammo. È un'espressione, però, quella del fare del tempo, che mi è rimasta. È la parte di Vito che è rimasta nel mio linguaggio e che uso anche in italiano. Lui, Vito, il tempo lo faceva, e lo fece, con la sua opera.
Acconci spiegava che cessò di fare quello che altri chiamano arte ma che per lui erano semplici esplorazioni, quando comprese che ciò che lo interessava erano i materiali del quotidiano. Diceva che se un cambiamento può avvenire attraverso la nostra opera (di artisti, architetti, ecc.) tale cambiamento avrebbe potuto avvenire non contemplando qualcosa o qualcuno (l'artista, l'opera d'arte) bensì usando qualcosa, essendo nel mezzo di qualcosa.
Gregorio Carboni Maestri, Ph.D.
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