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ni Haut ni Bas
Chiara Bettazzi, Marie Cousin, Lek M. Gjeloshi, Rachel Morellet, Ibrahim Nasrallah e Bärbel Reinhardt
inaugurazione giovedì 18 settembre 2014 | ore 19 |
a cura di Alessandro Gallicchio
LATO | piazza San Marco 13 Prato MOO | via San Giorgio 9/A Prato
Giovedì 2 ottobre 2014, ore 19:00 | LATO Conferenza / Dott.ssa Caterina Toschi Strumenti: Quand les images prennent position
In collaborazione con la rivista online d'arte contemporanea e critica «Senzacornice»
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Il progetto nasce come tentativo di dare forma ad un pensiero storico-artistico che fonda le sue radici nei dibattiti sull'informe animati dalla scena intellettuale parigina della fine degli anni Venti. Con il titolo ni Haut ni Bas si vuole dare un segnale chiaro: il rifiuto di ogni ideale volto ad alimentare un canone della perfezione in arte. L'opera non è categorizzabile e si svincola dai processi di canonizzazione estetica assumendo, talvolta volutamente, sembianze informi, in opposizione ai principi di antropomorfizzazione del reale. Volgendo lo sguardo a una fonte d'ispirazione, la rivista surrealista «Documents» (1929-1930), si è cercato di allestire uno spazio che, invaso da lavori di giovani artisti, attualizzasse, con diverse declinazioni, una riflessione di per sé già storicizzata. Grazie agli studi più recenti di Didi-Huberman[1], il quale si è più volte soffermato su tematiche vicine a quelle trattate dalla redazione surrealista (Georges Henri Rivière, Georges Bataille, Michel Leiris…), si è costituito un gruppo di lavoro che ha coinvolto artisti, curatore, gallerista e una storica della letteratura per far rivivere spazialmente scambi teorici che sarebbero altrimenti rimasti semplicemente sulla carta. Si è così ritenuto opportuno sposare la posizione di Didi-Huberman che, come avvenuto nella sua ultima avventura al Palais de Tokyo (Nouvelles histoires de Fantômes[2], con Arno Gisinger), ha evidenziato la necessità di un reale ripensamento dei rapporti tra ricercatori e artisti, sottolineando quanto i ricercatori, per ottenere dei risultati, debbano inventare delle forme, così come gli artisti, per inventare delle forme, debbano interrogarsi sui problemi della conoscenza. A partire da tali convinzioni è nata una mostra – o meglio un tentativo di riflessione critica – che ha portato all'allestimento di una serie di opere volontariamente ispirate ad un lavoro di ricerca condiviso. In questo caso, all'interno delle sale espositive, si è optato per la creazione di un "laboratorio riflessivo" nel quale le fonti teoriche, composte da immagini e testi, dialogassero tra loro in uno spazio reale che potesse effettivamente affiancare le opere, che in questo modo si legano non solo concettualmente ma anche spazialmente alle astratte "elucubrazioni". Tale sala ospita infatti sia le riproduzioni di tutti i numeri della rivista «Documents» che due definizioni contrapposte, quelle di Informe e di Antropomorfismo, accompagnate da una serie di immagini raccolte da artisti, curatore e gallerista che permettono di mostrare le molteplici interpretazioni di questi concetti. Posizionandosi come tassello fondamentale della mostra, tale sala si inserisce all'interno di un percorso espositivo che viene inteso come circolare, privo di un inizio e di una fine. Per questo sono stati uniti, in un unico evento, gli spazi espositivi LATO e MOO, nonché lo spazio fisico che le separa: la città di Prato. L'esposizione diviene così percorso da esperire sia nel suo insieme che frammentariamente, sia in un unico momento che in tempi diversi. La città viene "messa in mostra" e contribuisce, grazie anche all'esperienza di ogni singolo visitatore, ad alimentare la riflessione critica proposta dal progetto espositivo. Sei artisti, Chiara Bettazzi, Marie Cousin, Lek Gjeloshi, Rachel Morellet, Ibrahim Nasrallah e Bärbel Reinhardt, attivi a Parigi e in Toscana, hanno così deciso di dare vita ad un progetto condiviso che si è strutturato a partire da un dialogo continuo. ni Haut ni Bas utilizza una metafora spaziale per affermare quanto un qualsiasi prodotto artistico non possa essere inserito né all'interno della categoria del bello ideale né all'interno di una presunta categoria della bassezza, poiché è prima di tutto un documento, informe che sia. È quindi nello sconsacrare la necessità di ricercare un canone riconoscibile all'interno dell'opera d'arte che diviene importante analizzare quali possano essere invece le costanti che determinano una data scala di valore. Per questo, partendo – nel caso specifico di questa esposizione – dall'osservazione di come una traccia o un'impronta artistica possa in alcuni casi divenire espressione dell'informe o del disumanizzato, si è tentato di mettere in evidenza le plurime espressioni della produzione artistica che rivisitano l'idea di forma e l'ideale antropomorfico di essa. L'antropomorfismo intende dare sembianze umane al tutto. Tale atteggiamento, se riferito all'essere e alla sua stessa immagine, da vita a un processo d'idealizzazione della figura umana che lo porta a paragonarla, per somiglianza, addirittura al divino. Queste posizioni, facendo nuovamente allusione ai dibattiti dei primi del Novecento, sono state incarnate, ad esempio, da un critico come Waldemar George che, nella teorizzazione di un nuovo umanesimo, sulle pagine della rivista Formes, affermava: «je crois que Pannini et Nicolas Poussin ont connus ce désir d'imposer le rythme de leur pensée au rythme universel, et affirmer leur anthropocentrisme: lisez, l'absolue primauté de l'homme, roi de la création»[3]. Una tale visione, che si fonda sulla convinzione di una presunta superiorità antropomorfica della conoscenza, estremizza inevitabilmente la centralità dell'essere umano nel campo del sapere e pone numerosi interrogativi, come, per esempio, quelli che si sono voluti proporre in questa sede: è poi così vero, e soprattutto necessario, modellare il mondo reale a partire da un metro di misura, l'uomo, inteso come unico e perfetto? Non è forse interessante capovolgere o provare a decostruire questo ideale mettendo in discussione alcuni principi dell'antropomorfismo? Grazie alle teorie di Georges Bataille sviluppate in seno al Surrealismo dissidente, pubblicate sulle pagine della rivista «Documents» – poi riprese da Didi-Huberman – è risultato estremamente stimolante riscoprire come le forme abbiano un potere continuo di deformazione e come il potere di raffigurazione possa talvolta sgretolare i confini di un'immagine di fronte alle molteplici possibilità rappresentative. Queste discussioni, che vanno intese come aperte e lontane dall'aver trovato anche solo uno stralcio di conclusione, hanno spinto un gruppo di artisti, con poetiche e medium diversi, a lavorare ad un progetto nel quale quella che si può definire la traccia – sia essa fotografica, filmica, scultorea o grafica – diviene specchio di una messa in discussione delle diverse espressioni della forma, come è stato per l'importantissima mostra tenutasi al Centre Georges Pompidou di Parigi nel 1996: L'informe: mode d'emploi[4]. Un tentativo è stato quello, ad esempio, di intendere la fotografia come impronta del reale, corredandolo però dell'aspetto inconscio e fantasmatico. La resa fotografica di tali sfumature ha –come sospettato – incontrato delle resistenze che hanno irrimediabilmente indirizzato l'obbiettivo verso immagini più tormentate, come tormentate possono essere, in effetti, le sfaccettature della rappresentazione. Resistenze che sono state incontrate, con modalità e intensità differenti, anche da artisti che hanno fatto uso della scultura, della grafica o del video, portando così ad un totale ripensamento della visione di una realtà modellata antropomorficamente. Risulta allora interessante chiedersi se l'insieme di tali sperimentazioni, racchiuse in una piccola mostra, possano essere stimolo per una decostruzione della centralità della figura umana e del suo potere di strutturazione del mondo e della conoscenza, e se invitino realmente ad un ripensamento del suo potere d'affermazione. Un esperimento potrebbe essere quello di provare a sostituire ai principi genetici di somiglianza, nonché ai principi biologici di appartenenza, una visione che parli di forze intolleranti e decomposte, centrifughe e deformanti. L'insieme degli interrogativi proposti, che possono essere incrementati dalle considerazioni che ogni singolo spettatore potrà apportare, divengono stimolo per una creazione artistica che si vuole affiancare, senza per forza contrapporsi, alla costruzione canonizzata di una figura umana (sempre più androgina e standardizzata) e alla conseguente modellazione della conoscenza a partire da canoni prestabiliti. Risulta così estremamente stimolante ritornare a Bataille e nutrire la necessità di uno shock deformante: gli occhi, secondo il filosofo, devono essere turbati dal mondo che li circonda attraverso delle immagini che abbiano ancora il potere di divorarli destabilizzando i parametri di riferimento visivo. Solo da questo contatto violento può nascere una comprensione aperta dell'esperienza umana. Nonostante il discorso battalliano possa sembrare superato, o del tutto assimilato da una cultura che non si esime dal proporre immagini scioccanti, è comunque doveroso rilanciare la questione facendola rivivere attraverso i lavori di sei giovani artisti. Non vi sono risposte, non vi sono posizioni stabilite, vi è semplicemente un tentativo di ricerca, un laboratorio riflessivo, un confronto fra posizioni e poetiche che pur partendo da un punto condiviso percorrono vie molteplici, come molteplici sono le interpretazioni delle questioni.
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aperitivo
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info: info@lato.co.it orari mostra: dal lunedì al venerdì 10.00_13.00 | 15.00_19.00 ingresso gratuito
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[1] Cfr. Georges Didi-Huberman, La ressemblance informe ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Paris, Éditions Macula, 1995.
[2] Georges Didi-Huberman, Arno Gisinger, Nouvelles histoires de Fantôme (Paris. Palais de Tokyo, 14 febbraio-7 luglio 2014).
[3] Waldemar George, Appels de l'Italie. Eugène Bermann, «Formes», n. 3, marzo 1930, p. 7
[4] Yves Alain Bois, Rosalind Krauss (a cura di), L'informe: mode d'emploi, catalogo della mostra (Paris, Centre Georges Pompidou, 22 maggio-26 agosto 1996), Paris, Centre Georges Pompidou, 1996.
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