Epifanie del silenzio
Ci volle Giorgio de Chirico per definire meglio il punto di vista: non si trattava di Nature morte, ma di Vite silenti. La morte veniva in tal modo bandita da immagini alle volte persino esorbitanti di vita e felicità: trionfi di frutta, verdure, fiori, ciotole e vasi preziosi, e argenti e splendide porcellane decorate o meno. Può anche accadere, a volte e nella tradizione del genere, che faccia la sua comparsa, accanto ad altro cibo privilegiato, della cacciagione che può ricondurre al concetto di morte; o, anche e per di più, un teschio pronto a rinviare ferocemente al concetto di vanitas. Ma il predominio che de Chirico, nella sua visione filosofica e metafisica, sottolinea è quello del silenzio. Vita che non può parlare, perché dipinta, territorio altero e aristocratico del dipingere; e quando si dipinge principalmente si osserva il silenzio, un silenzio meditativo, elaborativo, creativo.
Mario Fani, seguendo il tempo come sulla riva di un fiume, ha sviluppato negli anni un'attenzione crescente al silenzio che già era connaturale al suo fare sin dagli esordi. Mario privilegiava un racconto ridotto a «suggerimento»: presentandoci dipinti che trasfiguravano gli ambienti, i mobili e gli oggetti della sua dimora nella campagna del Casentino; trasfigurando, dicevo, attraverso l'esibizione della consapevolezza del silenzio pittorico, e del magistero, sempre più acquisito e dimostrato, del gioco chiaroscurale, di luci e ombre, naturali e artificiali; suggerimento, dicevo sempre, relativo alla presenza umana che mai compariva, mai compare, ma sempre è dietro la porta di quegli ambienti, appena uscita, o in intenzione di entrare.
Poi gli oggetti hanno come preso il sopravvento, quasi fossero personaggi in cerca d'autore, hanno ottenuto la posizione protagonistica nella commedia pittorica che Fani ha cominciato a produrre, nell'esercizio ossessivo di una compenetrazione nelle urgenze di poveri oggetti: ciotole, coltelli, vasi, caffettiere, bicchieri di lieve trasparenza, bottiglie, pentole di coccio, e pochi frutti appena colti nella propria campagna, due limoni, due piccole mele, o meline, una cipolla a simbolo di una povera cena.
La ricerca pittorica di Fani, però, non è morandiana, non vi è ricerca di un estetismo geometrizzante nelle sue vite silenti: gli oggetti sono quello che sono, egli affida al silenzio e ai riflessi della luce il disvelamento (o, a seconda dei casi, il nascondimento) dei loro segreti, dei misteri che senza saperlo rivelano ai nostri occhi, alla nostra lettura. Protagonisti che ignorano la portata della loro presenza, una semplicità che si fa complessa metafora del nostro stare, umano, qui tra le cose e gli affari della vita. Sono gli oggetti a dircelo, queste vite silenti che possono ricordare al nostro cuore similitudini con le nostre mestizie, le attese, le calme speranze, nella ritmica di un giorno che si sta concludendo e di un altro che sta arrivando.
C'è anche da dire, però e inoltre, che nei dipinti di Fani il tempo può sembrare persino annullato. In certi momenti è come se egli non lo prendesse in considerazione, il tempo, come dicesse: «Ci sei, ci sarai pure, ma io ti nego». Egli si concede il lusso meditativo di una sospensione dello scorrere del tempo, quando non di una cancellazione. Ricordo un suo polittico di piccole dimensioni: quattro tele in cui si svolgeva il progredire dalla notte al giorno, nell'assenza-presenza del vero e celato protagonista umano del racconto. Il tutto mediato (in due elementi, quelli centrali del racconto, su quattro) da una sedia rivolta ora verso una finestra con le primissime luci del giorno, ora rivolta verso una porta nella piena luce del sole - ma anche dall'assenza della stessa, come a indicare l'assenza umana (nel primo e nel quarto elemento del polittico). La luce di una candela si alterna alla luce di una lampada elettrica, prima di cedere il completo territorio alla luce diurna, pur sempre in un interno. Nonostante, quindi, l'opera sembri sottolineare lo scorrere del tempo, l'immobile silenzio dei luoghi, dell'ambiente colto nei suoi aspetti più intimi e segreti, riconduce alla negazione del passare delle ore, per la forte implicazione meditativa che pone tutto in una dimensione eterna e immutabile.
Ora, se si fa esclusione dell'austero Casa di bambola, con un inquietante tavolo sbilenco, e di altri interni altrettanto secchi, in questa sede espositiva prevale una concentrazione ossessiva sull'economia degli elementi narrativi in campo. Principalmente un solo oggetto si rivela al nostro sguardo, alla nostra contemplazione: un vaso di terracotta, una ciotola dorata. Esaltati, nella loro singolarità, e nel calore legnoso di marroni e bruni d'intorno, da dimensioni grandi, molto grandi per la concezione realizzativa di Fani, che di rado si è dedicato, sino a qui, alle maggiori misure.
Si osservi lo slittamento d'inquadratura di Grande Vaso 1, e di Grande Vaso 2. Immagini assolutizzate dalla sintesi della concezione: si tratta di un semplice vaso, ma l'approfondimento delle posizioni di sguardo, il sovradimensionamento concesso dalle misure «forti» della tela, rendono potente la semplicità della formulazione, concedendo anche allo stesso soggetto rappresentato in dimensioni inferiori (Piccolo vaso) la coscienza di un senso maiuscolo di essere nella riduzione narrativa. Può venire in mente «Il meno è il più», secondo la definizione provocatoria di Mies van der Rohe, considerata l'intensità che Mario Fani riesce a farci raccontare da tanto umili oggetti. Poiché, inoltre e sempre secondo lezione di Mies van der Rohe, «Dio è nei particolari», osserviamo con sguardo innamorato la trasparenza di un bicchiere o di una bottiglia, il sobrio scintillio di una lama, il riflesso degli oggetti sul lucido ripiano di un tavolo, la necessaria presenza di quei limoni, di quelle meline, di quella cipolla degna dell'Ode di Pablo Neruda. Facciamolo con cuore calmo, e in silenzio, poiché stiamo assistendo alla sacra rappresentazione di Vite Silenti.
Arnaldo Romani Brizzi
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