Antonio Amore, catanese di nascita, classe 1918, ma sardo per scelta o, forse, per destino, approdò nell’Isola nel 1964, un anno prima di iniziare la sua carriera di insegnante a Oristano, ma con alle spalle una già lusinghiera esperienza artistica.
In quell’anno fatidico, abbandonata una Roma opulenta e in piena “dolce vita” che gli stava aprendo le vie di un agognato successo artistico, approdò, esule volontario, nelle lande silenziose tra Austis e Neoneli, più precisamente nella cantoniera di S’isteddu.
Luoghi aspri, per certi versi inospitali, querce secolari e graniti, pecore e pastori accolsero Antonio Amore, che recise i suoi legami con la Capitale, e mai rottura fu più radicale. Ai clamori e al chiacchiericcio romano preferì il suono secco e gutturale della parlata dei pastori del luogo e fu così che Antonio Amore divenne il più sardo dei sardi tra gli artisti del Novecento.
Avendo scelto la Sardegna quale terra d’elezione riuscì a interpretarne l’anima più profonda, senza inseguire le mode “avanguardistiche” del momento, senza cadere nelle trappole del folclore e, tuttavia, mantenendo la sua arte profondamente ancorata al dibattito contemporaneo.
La mostra Ironico Amore, a pochi anni dalla sua scomparsa, propone la produzione meno nota e più privata.
Non, dunque, gli esordi siciliani o l’astratta sintesi dei Cristi del periodo romano né, tantomeno, la cupa e tragica visionarietà dell’epopea del mondo agropastorale sardo nel suo desolante tramonto quanto, piuttosto, l’aspetto più ludico e irriverente del suo percorso artistico: un’ironia che si è spinta fino al sarcasmo nell’analisi spietata e attualissima del degrado dei rapporti sociali e della deriva del mondo politico, con un linguaggio pop, spesso effimero nei materiali quanto profondo nei contenuti.
Capace di presagire la debacle di una classe dirigente inadeguata, il populismo qualunquista, l’ottundimento della coscienza civile e la prostituzione intellettuale e morale che ne è derivata, Antonio Amore fa sfilare davanti ai nostri occhi le tronfie e inebetite pecore in poltrona, i vacui ectoplasmi delle animule pendule, gli espliciti uomini membra, gli autodistruttivi percorlupi e, su tutti, l’invereconda cortigiana Paolina, così stupidamente eginetica.
Un mondo abitato da pecore, pecore e ancora pecore, non più simbolo identitario quanto, piuttosto, amara metafora di una devastante omologazione culturale e sconsolata constatazione di una deriva umana nella quale il limite tra riso e pianto è davvero impalpabile.
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